Nel panorama delle vicende artistiche, segnato dalle azioni, dalle performances, dagli interventi che hanno caratterizzato, nel corso degli anni settanta e ottanta, le esperienze dell’Arte per il sociale in Campania e non solo, la personalità di Raffaele Bova occupa un posto di rilievo. Il suo è stato, e lo è ancora oggi, un rapporto che non media con le tendenze “‘gridate’ dalle mode o dalle fluttuanti richieste del mercato, bensi la scelta di un confronto diretto e frontale con la realtà. Lo fa con estrema libertà, non priva di un eclettismo che, nell’arco di cinque decenni, ha spaziato e spazia dagli interventi performativi alle installazioni, alla pittura lasciata libera di ondeggiare tra l’astrazione lirica, l’iperbole naive e la figurazione d’impronta pop.
E quanto ricostruisce Massimo Bignardi in questa prima ed ampia monografia dedicata all’artista. “La sua esperienza – scrive quest’ultimo – si inscrive nel dilatato ambito del ‘realismo’ che, sia chiaro, non deve intendersi come la riproposizione di un pensiero alimentato dalla realtà percettiva, tanto meno da un realismo espressionista, sostenuto dall’ideologia, quanto la scelta di farsi partecipe, cioè parte attiva, di un senso comune, che è proprio dei processi di democratizzazione. L’arte, quindi, come esperienza di una formazione permanente ma, anche, prefigurazione di una libertà e di una eticità nuova”.
Per Enrico Crispolti, il lavoro di Bova, già dalla fine degli anni settanta, era orientato “su motivazioni di demistificazione critica attraverso un acuto uso dell’ironia, che lo spinge a scegliere “emblemi linguistici deliberatamente di carattere antiaulico, ‘basso”, riferibili subito e quasi orgogliosamente all’ottica di un’antropologia popolare”.
Sarà questo, negli anni, il suo modo di guardare il contesto, nel quale si cala la sua quotidiana esperienza, artistica e sociale, rifiutando a priori, secondo Vittorio Fagone, qualsiasi speculazione polemica.